Suoni, rumori, buio, lame di luce: l’atmosfera è inquietante in Cafards, ora in scena al Teatro Factory32 a Milano. Inquietante appare fin dai primi minuti, quando una voce annuncia che se la sentiamo significa che siamo ancora vivi e possiamo farcela. L’attenzione è tutta concentrata su questo annuncio, quando tre personaggi irrompono nella sala, buia, illuminati solo da quella luce frontale sopra la testa. Indosso hanno dei sai con cappuccio che li coprono parzialmente. I dialoghi non sono meno inquietanti, perché sentiamo dire che i boschi non sono sicuri e non c’è più niente.
L’atmosfera, che chiama in causa tutti gli elementi, suoni luci parole, conquista il pubblico, già proiettato in un presente drammatico e un futuro distopico da quella plastica vista entrando, intorno alle poltrone. Ugualmente piace molto l’utilizzo di tutti gli spazi che offre la sala diretta con passione da Valentina Pescetto. Perché i protagonisti della pièce entrano dal fondo della sala quando il pubblico è già tutto seduto, ma utilizzano anche un ingresso laterale per raggiungere il pozzo all’esterno (immaginato nella pièce, naturalmente) e salgono la scala sul fondo per raggiungere una camera superiore.
Al centro della scena, distesa sul letto una ragazza sembra gravemente ferita, mentre accanto un ragazzo è legato e imbavagliato. Non c’è acqua, mancano gli antibiotici e l’insulina: la situazione non è certo tranquillizzante. Nemmeno lo sono le tante, incalzanti parole. In particolare quando si sente dire «A volte devi prendere delle decisioni da cui dipende la vita degli altri». Che cosa sta succedendo? Questo alternarsi di buio e luce, questa attesa dell’alba, ma anche i rumori che coprono ogni voce e le armi, pistole e fucili, che appaiono non promettono una evoluzione tranquilla della storia, tutta da scoprire. Del resto non si possono considerare tranquilli gli anni che abbiamo vissuto. Così quell’attesa dell’alba assume un significato simbolico, come lo hanno i rumori e gli annunci drammatici che si sentono.
Lo spettacolo ha subito vari rinvii, causa pandemia e conseguenti lockdown. Così appare logico pensare a quello che tutti abbiamo vissuto in questi due anni. Ma poi è intervenuto un altro evento drammatico e ugualmente imprevedibile. Così tutto quello che viviamo attraverso i personaggi in scena corrisponde a quanto, a non tantissimi chilometri di distanza, sta vivendo un numero impressionante di persone.
Il titolo, Cafards, allude dunque a tutti coloro che, come scarafaggi – cafards in francese, appunto -, vengono schiacciati da uno scarpone? Ma cafard è anche il senso di disagio ed è proprio questo – sia pure a dimensione inevitabilmente ridimensionata rispetto alla realtà – che vivono gli spettatori che riescono a immedesimarsi in quei reclusi.
Cafards – Il buio dopo l’alba
con Giacomo Bottoni, Gledis Cinque, Beatrice Gattai, Andrea Pellizzoni, Filippo Tirabassi
drammaturgia e regia: Nick Russo
disegno luci: Federico Toraldo; costumi: Noemi Intino
produzione: PaT – Passi Teatrali
a Milano, al Teatro Factory32 (via Giacomo Watt 32), dal 3 al 5 giugno 2022
House Macbeth, luci, immaginazione e la tragedia di Shakespeare esce esaltata
Prodotto da Passi Teatrali nell’aprile 2019 è andato in scena, ugualmente al Factory32, House Macbeth, con due attori in scena. Qui riprendiamo due stralci della recensione pubblicata allora, scritta da chi scrive anche questa recensione di Cafards.
Due attori e una scenografia fatta di luci: è House Macbeth andato in scena a Milano nello spazio teatrale Factory32. Protagonista è la coppia con Lady Macbeth che, mossa da sete di potere, istiga il marito a uccidere per conquistare la corona. Loro si muovono in una scena buia, tra la luce delle candele e squarci di luce dall’alto. In una atmosfera che conquista gli spettatori, magica, perché questa è una storia cruenta, ma con molte parentele con la magia e il sovrannaturale, grazie alla profezia delle streghe e a quei fantasmi che la loro coscienza crea dopo i delitti.
L’ultima scena riprende le parole di Shakespeare («La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore che avanza tronfio e smania la sua ora sul palco, e poi non se ne sa più nulla. È un racconto fatto da un idiota, pieno di grida e furia, che non significa niente»). Per gli spettatori diventa un modo per ricordare che questo è teatro, fatto da attori che per 50 minuti giocano – nell’accezione inglese to play (recitare, giocare) – a trasportare il pubblico in un mondo diverso da cui lasciarsi conquistare. In questo caso per il pubblico è facile sentirsi quasi avvolgere da questa storia molto concreta, ma raccontata in modo magico; cruenta ma senza sangue che scorre in scena; con parole che sanno evocare chiedendo di immaginare, in una scena che sembra fatta di luci.