Italo Calvino ovvero Genova, i giorni esatti del centenario della nascita, lo stretto rapporto con Emanuele Luzzati. Sono molte le ragioni che hanno spinto il Teatro della Tosse a realizzare proprio adesso “I Nostri Antenati – trittico calviniano”, articolato su vari palcoscenici fino a domenica 26 novembre.
Il territorio ligure rende omaggio attraverso il teatro all’illustre sanremese Italo Calvino alla scadenza del secolo dalla nascita. Lo fa con la realtà che partì dalle pagine di “Il castello dei destini incrociati” per mettere in scena in decenni ormai lontani lo spettacolo divenuto memorabile “Il Castello di Carte ovvero il Mistero dei Tarocchi” diretto da Tonino Conte con le scene di Emanuele Luzzati.
Più volte il trio dei nomi Calvino-Luzzati-Conte ha continuato a intrecciarsi. Oggi la tradizione continua e si replica con il nuovo trio di registi Emanuele Conte, Giovanni Ortoleva e Laura Sicignano, che va a riprendere i tre romanzi più popolari “Il Visconte dimezzato”, “Il cavaliere inesistente” e “Il barone rampante” per realizzare un’unica trilogia teatrale che possa non solo rendere omaggio al grande scrittore, ma anche restituire alla sua parola il giusto valore di forza di comunicazione, intima col lettore, ma anche parola che si possa esaltare e potenziare nell’incarnazione nelle voci e nelle azioni degli attori.
A dare un senso comune, a giustificare la trasposizione in palcoscenico dei tre romanzi, è chiamato il sempre coinvolgente Enrico Campanati, che già nel 1990 faceva parte del cast del “Mistero dei Tarocchi”, impegnato in un monologo che ora fa da Prologo all’esperienza itinerante tra gli spazi differentemente coinvolti e agli episodi agiti in tempi diversi, ma perfettamente in contemporanea come spesso avviene negli spettacoli della Tosse.
Campanati si presenta nelle vesti di un “cavaliere”, carattere fil rouge dell’intera trilogia letteraria, in attesa da sempre di un metaforico cambio della guardia, talmente radicato al suo ruolo da essersi trasformato in tronco d’albero coperto di muschio. Potrebbe venir visto anche come albero genealogico di produzioni tanto letterarie che teatrali? Potrebbe esserlo, nella bella intuizione visiva e drammaturgica proposta da Emanuele Conte.
Conte “si accaparra” anche il primo romanzo che nella sua riscrittura teatrale diventa Mal Visconte Mezzo Gaudio allestito nello spazio Agorà, totalmente ristrutturato per l’occasione. Tutto bipartito: il pubblico disposto su due file frontali, due i palchi opposti per l’azione. Da un lato un salotto borghese, un accatastamento liberty post Nonna Speranza, dall’altro la scrivania con tanto di emblematica macchina per scrivere sormontata dal ritratto a dimensione 1:1 del Visconte, il costume e il trucco del protagonista divisi simmetricamente a metà in rosso e in nero come per l’uomo/donna dei caffè concerto di inizi ‘900. Tre gli attori (Pietro Fabbri, Antonella Loliva e Matteo Traverso) impegnati nei molteplici ruoli descritti nel romanzo che si muovono anche in relazione alla proiezione di un film B/N a cartoni animati, giusta citazione dei capitoli iniziali del libro.
In uno stile personale, che da tempo si fa apprezzare, il copione-riscrittura di Emanuele Conte fluisce liberamente, dai dialoghi a più personaggi alla narrazione in prima persona, dal monologo al racconto in oggettiva e offre quindi agli attori la possibilità di farsi incalzanti camaleonti di fregoliana memoria fino al climax di Matteo Traverso eccellente duellante contro sé stesso. Senza diventare un Bignami per Scuola Media si ribadiscono sia la brillantezza della scrittura calviniana che il paradosso dell’assunto e la completezza del romanzo. Perfettamente in linea anche con gli aspetti visivi a cui ci ha abituati la storia scenografica della Tosse.
Il “capitolo 2” ha luogo all’esterno dell’edificio del teatro, nel limitrofo Luzzati Lab, spazio recuperato dall’uso industriale, ma con ancora intatte le linee e le strutture originali. Perfette per dialogare con il candido palcoscenico inclinato e tagliato in due, scultura concettuale, come un libro aperto. Qui agisce in solitaria Valentina Picello impegnata in un monologo di circa mezz’ora, “Pagina”, in cui Riccardo Baudino e Giovanni Ortoleva (anche regista) hanno concentrato tutto il senso di “Il cavaliere inesistente”.
Delle complesse vicende originarie rimangono solo le tracce, gli accenni, affidati alle movenze e alla narrazione della protagonista, quella Suor Teodora religiosa dell’ordine di San Colombano, a cui dalla madre superiora del convento è stato assegnato l’incarico di scrivere la storia e sul palco vediamo diventare materialmente la penna calviniana nell’atto stesso di vergare il romanzo. L’abito nero della religiosa come inchiostro, i movimenti coreografici sotto quelle vesti a trasformare l’attrice nelle singole lettere che compongono le specifiche parole nei particolari delle frasi. Un magnifico contrasto tra il bianco e il nero, un’antitesi da cui esplode il massimo della creatività, un’antinomia entro cui andare a indagare i processi espressivi dell’atto della scrittura. L’attrice offre una prova superba, veramente superba, mettendo in atto ogni minimo frammento del suo corpo, la piccola falange del mignolo come il dorso inarcato per trasformarsi in totipotente macchia di Rorschach, in scarafaggio, in crisalide, in affascinante farfalla, il cui sguardo ceruleo dalle mille espressioni apre a universi immensi e tutti da indagare. Le battute sono sussurrate, cantate, gridate. Diventano il controcanto significante su una soundtrack di Pietro Guarraccino, ricca di sonorità contrastate tra l’indie-garage e il Gregoriano.
Dei tre episodi dello spettacolo, questo di Ortoleva-Baudino risulta il più “astratto”, il meno calviniano in senso strettamente narrativo, ma di certo il più calviniano per leggerezza e profondità, quello che meglio restituisce il senso “filosofico” dell’attuale operazione teatrale. Talmente autonomo rispetto alle vicende del protagonista “inesistente” Agilulfo e del suo scudiero Gurdulù, sì e no citati nel corso del monologo, al punto che potrebbe continuare ad aver vita anche in forma indipendente, perfetto spettacolo short per venir rappresentato in occasione di festival letterari come i vari Saloni del Libro o i BookCity sparsi per la Penisola. Anche perché le infinite doti qui espresse dalla Picello meriterebbero di venir apprezzate non solo all’ombra della Lanterna.
In Sala Trionfo, anche questa ribaltata nelle sue forme tradizionali, la trilogia si chiude con Il Barone, la versione per attore solista con la regia e l’adattamento di Laura Sicignano. In scena a recitare le vicende di “Il barone rampante” c’è il giovane Alessio Zirulia, che va scontrarsi in solitaria e a distanza brevissima con l’allestimento kolossal dello stesso testo messo in scena pochi mesi fa a Milano (sappiamo bene che i paragoni e i confronti non si dovrebbero mai fare, ma in certi casi diventa quasi obbligatorio se non inevitabile).
Il suo racconto sciorinato tra le cantinelle, le pedane, i ballatoi, le funi, le altalene, le pulegge e l’intrico di tavole lignee che diventano il garbuglio dei rami del bosco su cui agisce il protagonista a partire dal 15 giugno 1767 per non discenderne più, isolato dalle vicende familiari come dalla Grande Storia, suona come racconto quanto più intimo in linea diretta con le parole di Calvino. Anche perché si compone di una narrazione riferita tutta in terza persona, fedele, fedelissima alla pagina a stampa, attenta a tagliare e a riassumere nel massimo rispetto, più interessata al senso e ai suoni della natura da far rientrare in teatro che non alla teatralizzazione delle vicende da far rivivere sul palco. Dunque il minimalismo o la simbolizzazione dei segni assumono un valore vivo, profondamente eloquente e come esempio si può citare la bolla di sapone che scoppia alla morte della madre, sintesi visiva di poesia e significato che le sole parole non riuscirebbero a restituire. Caso mai, se una nota stonata andasse proprio sottolineata, si potrebbe scovare una certa mancanza di un’esperienza di vita vissuta dal vero dal giovane interprete, molto dotato in quanto a talento (lodevole nei ruoli infantili), ma forse ancora anagraficamente non pronto per un ruolo tanto complesso.
Non si resta comunque delusi dalla triplice esperienza, così sfaccettata e articolata, leggera e profonda, che probabilmente anche Calvino ne sarebbe stato soddisfatto.
(Nella foto di Donato Aquaro una scena di Mal Visconte Mezzo Gaudio)
I nostri antenati – Trittico calviniano
con
Mal Visconte Mezzo Gaudio da Il Visconte dimezzato / regia Emanuele Conte
Pagina da Il Cavaliere inesistente / regia Giovanni Ortoleva
Il Barone da Il Barone rampante / regia Laura Sicignano
A Genova, Teatro della Tosse, fino al 26 novembre 2023