Lasciate che, parlando di Heiner Müller, un Brecht-dipendente come il sottoscritto inizi a parlare del complesso spettacolo visto in questi giorni al Teatro Astra di Torino (23-26/2) estasiato dalle modalità di recitazione straniata degli interpreti. Frédérique Loliée e Marcial Di Fonzo Bo hanno dato un esemplare saggio di come il drammaturgo di Augusta intendeva venisse posta la battuta dagli attori impegnati a far arrivare il senso profondo della parola, senza partecipare emotivamente al senso dell’azione, ma anche senza rinunciare a comunicare criticamente il proprio stato d’animo. Del resto alle loro spalle a dirigere il trittico Rivage à l’abandon, Matériau-Médée, Paysage avec Argonautes di Heiner Müller c’era uno degli ultimi eredi diretti di Brecht, attivo al Berliner Ensemble. E’ quel Matthias Langhoff, discepolo e collaboratore stretto dell’autore-regista dei tre testi, che già erano stati riuniti in un unico spettacolo nel 1983 e che ora son tornati in scena come co-produzione internazionale tra la Comédie de Caen – CDN de Normandie, il CDN d’Aubervilliers e il TPE – Teatro Piemonte Europa.
Poco più di un’ora la durata complessiva dello spettacolo (ma forse sarebbe più giusto definirlo esperienza multisensoriale artistica), un’ora ad altissimo peso specifico in cui ogni minimo segno, ogni sfumatura, porta un proprio significato espressivo e un motivo d’essere. Si entra nella semi-oscurità del retropalco come in una vasta galleria d’arte, in cui sono esposte creazioni contemporanee di Catherine Rankl, tra quattro enormi pareti/fotografie/muri in cui si riscontrano citazioni dalle foto in movimento di Muybridge (alla nascita Edward James Muggeridge) o i ruderi dell’iperrealismo e dell’arte concettuale degli anni ’60. Si passa davanti a teche contenenti i primi esemplari di preservativi, documenti dell’olocausto o della Germania nazista. Nell’etere si diffondono le parole incomprensibili di un’installazione d’arte sonora radiofonica di inizio anni ’60. Siamo nel mezzo del paesaggio profetizzato dal post-guerra atomica. Un abito bianco pende dall’alto, quasi nascosto, appeso a una gruccia. A ben guardare però si leggono anche espliciti riferimenti e appelli all’attuale conflitto in Ucraina. L’incubo di ieri è rimasto l’incubo dell’oggi, perché l’Occidente non ha davvero mai elaborato nel profondo il passaggio del dopoguerra, la divisione tra BRD e DDR, neppure l’abbattimento del Muro di Berlino. (A posteriori, a fine spettacolo, si ricollocheranno coerentemente in quest’ambiente anche le parole “vissuto sotto due dittature” poste sotto il titolo dell’autobiografia di Heiner Müller). Nella colonna sonora spiccano anche le note della celebre habanera La Paloma di Sebastián Iradier Salaverri.
Terminata la visita alla “galleria”, il maestro di cerimonie apre a metà un muro, fa attraversare un palcoscenico semidesertico e introduce gli spettatori in platea, facendo scavalcare uno stretto binario senza destinazione (come non pensare ai treni per i campi di concentramento?). Così ha inizio la declamazione dei versi che compongono il testo di Heiner Müller: inizia “la rappresentazione”. Tutto ciò che è stato visto, udito, percepito fino a quel momento prende un’altra vita, un differente significato. Le pareti diventano quinte mobili e danno una concretezza specifica, un altro senso – tangibile – alle parole. Stessi oggetti, nuovo linguaggio, nuova semantica. Filmati proiettati visualizzano immagini evocate dal testo, oggetti cambiano funzione d’uso, suoni si riplasmano in concetti. Fonemi gutturali diventano prima il verso di un piccione (paloma in spagnolo) e poi esplodono come eloquio umano della Maga assassina della Colchide. L’abito appeso viene indossato come costume di scena: Frédérique Loliée si muta in Medea.
Tutto lo spettacolo procede su questa formula di frammenti che rimandano ad altri frammenti accostati o sovrapposti per similitudini e/o contrasti. Già visti, decontestualizzati, riorganizzati, riposizionati, ridefiniti. Medea versa il contenuto di due lattine (trippa?) e in platea corre un brivido d’orrore, uccide così i due figli partoriti da Giasone (Io non sono desiderata qui: ma «qui» è nella nuova patria o sul palco di un teatro?). Aulico il suo dialogo con la nutrice, quanto in contrasto con il secco e aspro monologo di un Giasone spiaggiato su un barchino arenato (fortunato o sventurato? profugo o rifugiato? migrante nell’/dell’oggi?). Così mentre la recita procede si mette in scena l’atto stesso di recitare sé stessa, il suo senso di essere recitata. Dunque l’epilogo in proiezione “Il testo richiede il naturalismo della scena… Come in ogni paesaggio l’IO, è collettivo… Il contributo del teatro alla loro prevenzione non può che essere la loro rappresentazione… La simultaneità delle tre parti del testo può essere rappresentata liberamente” riporta al momento dell’ingresso nell’esperienza teatrale, agli infiniti materiali da vedere, capire e assemblare per costruire (si spera) un’attualità nuova e un futuro (migliori quando non) differenti. Regia superba? Senza osare tanto – ma si potrebbe – di certo la si può definire difficile da dimenticare.
(Nella foto un momento del trittico Rivage à l’abandon, Matériau-Médée, Paysage avec Argonautes di Heiner Müller, visto al Teatro Astra di Torino)