A volte due letti non significano riposo. Piuttosto attesa. Che cosa attendono sui loro letti i protagonisti di Il Calapranzi di Harold Pinter, ora al Teatro Franco Parenti?
Il loro è un dialogo fatto di banalità. Si scuotono quando Ben legge delle notizie al sapor di sangue. Discutono quando uno dice «accendi l’acqua». Ma il contorno non è certo tranquillizzante, con rumori di sciacquone e di motori sulla strada. Possono solo sentirli, perché loro sono in attesa, vestiti, su due letti in uno scantinato, chiara origine postindustriale, niente finestre, luci fisse. Al centro uno strano inquietante, rumoroso meccanismo. È il calapranzi, che nulla cala e chiede di essere «nutrito» con le loro merendine.
Le pause tra le loro parole banali improvvisamente si annullano. E compaiono le pistole nelle mani di questi due killer pronti a eseguire l’ordine. Chi sarà l’oggetto del contratto che i due aspettano di eseguire? Ben da perfetto operaio del crimine aspetta l’ordine. Gus ha invece iniziato a porsi / porre delle domande.
Qui è la banalità del male che va in scena. I due attori danno vita a dei personaggi che sembrano due come i tanti che incontri in strada, intelligenza media, scarsi interessi, apparenza qualunque. Finché in scena non appaiono le pistole, strumenti di lavoro, vera motivazione della loro vita. Vera sorpresa per chi vede per la prima volta la pièce, che ancora molte ne riserva. Colpisce anche questa scenografia, che nei colori bianco e grigio parla di mediocrità, salvo poi sorprendere con quel calapranzi dalla struttura molto complicata, che non ci si aspetta a sostituire uno strumento spesso in scena solo suggerito.
Insieme, l’attenzione si sposta sulla interpretazione in crescendo dei due attori, che sanno essere due qualunque fino al momento culminante. Quando per loro la reazione è inevitabile. E inevitabile è pensare che a tutto ci si abitua.
La pièce rappresenta un perfetto meccanismo che gioca con la sorpresa, l’ironia, il noir. Lascia immaginare e crea quegli spazi ideali per i due attori diretti da Roberto Rustioni. Qui Dario Aita – Ben e Giuseppe Scoditti – Gus sono credibili nei loro ruoli di sicari prezzolati. Ottimamente riescono a differenziare i loro personaggi, pur essendo sostanzialmente simili: Ben ragioniere del crimine, niente dubbi, niente interrogativi; Gus più titubante, che si è lasciato scalfire da un precedente contratto.
Dai lunghi convinti applausi a fine spettacolo si arriva a qualche considerazione che riguarda i nostri giorni. Certo difficilmente – è auspicabile – incontreremo qualche killer, che faremmo fatica a riconoscere. La riflessione però riguarda gli ormai tanti che uccidono: interpellato in televisione chi lo conosceva parla di una persona perbene, normalissima, «ma avrei potuto immaginare». Se usciamo dai confini della quotidianità allora Ben e Gus appaiono incapaci di decisioni, pronti solo ad accettare quello che gli viene imposto, perché quello è il loro compito. Sopra di loro c’è qualcuno che ha il potere e trova chi lo accetta perché è più semplice che controbatterlo.
Ma chi aspettano i due?
(Nella foto di Rosellina Garbo i protagonisti di Il Calapranzi di Harold Pinter. Sono Dario Aita e, in primo piano, Giuseppe Scoditti, rispettivamente Ben e Gus)
Il Calapranzi
di Harold Pinter
traduzione Alessandra Serra
regia Roberto Rustioni
con Dario Aita, Giuseppe Scoditti
scene e costumi Valentina Console, assistente alla regia Giuseppe Bongiorno
produzione Teatro Biondo Palermo
Durata 60 minuti
A Milano, Teatro Franco Parenti, dal 18 al 23 febbraio | Sala Blu