“Un corpo nuovo, e non potrete dimenticarmi mai più” sono le parole con cui Massimo Verdastro si accomiata dal pubblico che lo ha seguito fino ad allora nel funambolico monologo Il frigo, lo spettacolo presentato dal 7 al 12 novembre in prima nazionale al Ridotto del Teatro Mercadante di Napoli. Non è una battuta scritta da Copi, autore della pièce datata 1983 con debutto al Festival d’Automne, ma una frase “rubata” a “Per farla finita con il giudizio di Dio” di Antonin Artaud, indispensabile all’interprete/regista per dare una conclusione coerente alla messa in scena di un testo che ci è pervenuto volutamente aperto alle più libere soluzioni.
Del resto per aprire lo spettacolo ha fatto ricorso anche a pagine del folle romanzo “Il ballo delle Checche” dello stesso Copi sia per sottolineare il carattere autobiografico del copione, sia per partire visivamente dall’immagine dei fumetti della “Donna Seduta”, che è rimasta fissata nella memoria collettiva. Donna Seduta che, versione di un Krapp disegnato al femminile, ossessivamente va ricercando e ricreando la propria identità e la propria storia passata e futura. Ora si chiama L., ma potrebbe essere anche una delle Quattro Gemelle o la Loretta Strong di altri testi teatrali di Copi, e si trova adesso autorelegata in un ambiente chiuso, prigione e anche rifugio da una realtà esterna minacciosa e perniciosa, ma anche sirena di potenziali incanti e seduzioni. Si muove in un’evocativa scena concepita da Pier Paolo Bisleri, interno total black di una camera ardente con pareti nere opache e neri pavimenti riflettenti, circondati da specchi replicanti assolutamente neri.
Al centro un enorme frigorifero nero (il monolite di “2001” simbolo dei cambiamenti?) sfregiato dai “graffiti d’autore” di Basquiat. Aprirlo o non aprirlo? Cosa contiene? Entrarvi? Si tratta di un portale verso un’altra realtà, generosa di ogni possibile libertà (a partire da quelle LGBT) o di una bara chiusa da un’inamovibile pietra tombale? Di certo si tratta di un regalo della madre di L. (la vedremo anche in scena alcolizzata e sprezzante) in occasione della svolta del 50° compleanno della figlia. O forse dovremmo dire del figlio, perché L. in continua transizione passa da un genere all’altro, da un personaggio all’altro, recitando per sé stesso, sognandosi o evocando. I contatti con l’esterno avvengono attraverso il telefono (con dovute citazioni a Franca Valeri) o per lo squillo del campanello della porta, che annuncia l’ingresso improvviso di coloratissimi personaggi improbabili quanto assurdi.
Nel computo totale, oltre alla protagonista, si materializzeranno almeno sei altre figure coloratissime, come la dispotica governante Goliatha, la Zingara fotografa che conosce la sorte degli uomini e ne indirizza il futuro, l’Ispettore, l’Editore tirannico ma ingenuamente bancomat, la bambola Dottoressa Freud, oltre alla già citata Madre cinica etilista convinta, a cui si aggiungono le marionette del Topo e la pelliccia Bebè Volpe, ciascuna dotata di una specifica identità propria.
A dar vita, carattere e voce a tutti loro, con tempi fregolicamente impressionanti, si impegna, con totale aderenza al testo e ammirevole generosità, l’attore solista Massimo Verdastro, che per la regia si è avvalso della collaborazione con Giuseppe Sangiorgi. Insieme hanno perfettamente compreso e comunicato il senso profondo delle continue e sorprendenti metamorfosi, il fluido transito da un’identità all’altra, il mascheramento/smascheramento del sé, dietro a una maschera sovrapposta a un’altra maschera. Il tutto costantemente nel nome del doppio – J’ai deux amours si sente cantare da Josephine Baker in sottofondo – e nei canoni estetici del camp, il modello espressivo secondo cui attraverso l’eccesso della menzogna si rivela il vero.
Se al tempo in cui era Copi a recitare sé stesso era l’aspetto del teatro en travesti a emergere esplosivo, col paradosso dello sberleffo transessuale a divertire o scandalizzare, i decenni trascorsi da allora hanno rivelato caratteri ben più profondi ed essenziali della scrittura drammatica e dei controsensi narrativi. La messinscena di Il frigo di Verdastro rivela quanto serio sia stato il gioco del teatro nella vita dell’autore argentino e come il suo recitare la propria vita “balzana” sul palco gli abbia permesso di costruirsela con coscienza pirandelliana proprio nel momento in cui la andava traslando pubblicamente in teatro, concedendosi e divertendosi anche con i maramei alle proprie scorribande omosessuali e con gli sghignazzi all’assunzione dei più strampalati allucinogeni. Tant’è che ancora una sua verità così esplicita fa paura – non quella di poter accedere ad ammucchiate gay o al consumo delle droghe più devastanti – ma del travestirsi che è un denudarsi.
Gran parte del pubblico (e la reazione degli spettatori napoletani lo riconferma) fa ancora fatica ad accettare la potenza data dal teatro, di arrivare a scoprire il proprio sé più ignoto grazie alle mille maschere sotto cui nascondersi. Se politica è provare a risolvere le contraddizioni dell’uomo, Massimo Verdastro con Giuseppe Sangiorgi hanno realizzato uno spettacolo non di delirio ma di politica.
(Nella foto di Ivan Nocera, una scena da Il frigo di Copi, con Massimo Verdastro protagonista e anche regista con Giuseppe Sangiorgi, visto al Ridotto del Mercadante a Napoli)