Mesi intensi, questi di ripresa post-pandemica, per il regista fiorentino poco più che 30enne Giovanni Ortoleva, figura sempre più autorevole sui nostri palcoscenici, dopo i riconoscimenti alla Biennale di Venezia 2020. In autunno ha voluto rimettere mano a I rifiuti, la città e la morte di Rainer Werner Fassbinder, già presentato in riva alla Laguna prima di riproporlo a Genova al Teatro della Tosse e al Festival delle Colline Torinesi. In novembre ha portato in scena Lancillotto e Ginevra, di cui è stato co-autore con Riccardo Favaro. Attualmente è impegnato nell’allestimento shakespeariano di La dodicesima notte (o quello che volete) in debutto al LAC di Lugano il prossimo 27 febbraio. Siamo dunque al momento giusto per riflettere su alcune caratteristiche di questo giovane regista, di cui va notata in primis la sua curiosità di uomo contemporaneo e la meticolosità di documentazione.
Con I rifiuti, la città e la morte dopo Saul e Lo strano caso del Dottor Faust, è andato a chiudere, come è stato giustamente sottolineato, una sua prima trilogia personale dedicata alla ribellione a Dio. Ora Ortoleva si sta dedicando all’indagine delle indagini: l’Amore, nelle sue più disparate sfaccettature, tutte legittime, tutte contradditorie, tutte fondamentali nell’esistenza umana. Amore come mito di vita e amore come moto di morte. In questo senso il lavoro su Fassbinder, può venire letto come trait d’union tra i due momenti artistici, e risultare emblematico. Scelta rischiosa e meritoria nell’averlo restituito alla scena dopo le tante censure e veti internazionali (ma vincendo anche le perplessità nazionali di antisemitismo). Insieme utile fonte di riflessione, in quanto ricco campionario di amori disperati e profondamente malati (“il diritto di uno è l’impotenza dell’altro”). Quello di Roma B., la prostituta più magra della Francoforte a fine anni ’60, che passa dall’amore per Franz B. (“Io non ho opinioni, io ti amo; non avevo che te e le tue botte che mi hanno aperto gli occhi”) alla comprensione (a pagamento) per il Ricco Ebreo palazzinaro, quello di Franz B. dipendente dal gioco che dà libero sfogo alla propria omosessualità repressa in orge S/M. E non è un modello di riferimento neppure il matrimonio tra il padre e la madre di Roma B., lui nazista convinto in un ritorno delle SS al potere e travestito in un kabarett di infimo livello, costretto a occuparsi della moglie paralitica in carrozzella, lettrice assidua di Lenin e Marx. Né l’amicizia può esser rifugio di affettività certa quando le colleghe di marciapiede di Roma la respingono nel momento del suo successo (“Lei non disprezza più gli uomini. Ha forse dimenticato che una delle regole del gioco è disprezzare gli uomini che pagano l’amore? Per gli uomini, lei è diventata un fratello, e per le sorelle una nemica”). La passione si intreccia al sacrilegio e non c’è purificazione dopo la colpa. “Io so quel che mi spetta. Non ho il diritto di perdonare, né il diritto di pretendere alcunché. Non ho nessun diritto. È questo il mio vantaggio. L’impotenza è il mio vantaggio” conclude Roma B. Il giovane regista lo mette ben in evidenza collocando l’azione in una scenografia quanto mai essenziale ed emblematica: nessun fondale, nessun sipario, nessuna quinta, solo una serie di sedie lungo i due lati minori per i 7 attori sempre visibili e incaricati di dar vita ai 19 personaggi che agiscono su una passerella centrale a forma di croce latina, passerella per sfilata di moda e insieme cattedrale sacra. In una cifra di sobrietà e essenzialità che sembra caratteristica importante (per ora?) di questa fase creativa del giovane Ortoleva.
Spogliare, asciugare, condensare, arrivare al nucleo. Palcoscenico spoglio, elementi semplici di un interno piccolo borghese, era in Saul. Palcoscenico vuoto anche in Lancillotto e Ginevra, immerso in buio e tenebre squarciati da fenditure di luce, oscuro sarcofago a contenere i tormenti dei due amanti e pochi frammenti di armature (queste sì rilucenti) abbandonati a terra. Oscurità con qualche bagliore, come oscuro con qualche bagliore è l’inconscio. Il mito leggendario e primigenio come materia junghiana da mutare in evento teatrale.
A testimonianza della meticolosità con cui Ortoleva prepara i suoi spettacoli si può ricordare che sono serviti molti mesi, oltre un anno, per elaborare la drammaturgia definitiva di questo lavoro tra riflessioni, verifiche, correzioni. Tempo per i volumi letti e compulsati, tempo per organizzare i dati raccolti, tempo per ordinare le basi individuate. Non solo i fondamentali Romanzi Cortesi di Chrétien de Troyes, ma anche il monumentale La morte di Artù di Thomas Malory e soprattutto il film capolavoro Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson. Le azioni e gli oggetti (la selva come il pettine della regina) vengono alla fine affidati solo alla parola del testo detto e al modo in cui gli attori la pronunciano nella lezione appresa dal maestro Peter Brook, quando diceva che a teatro vale una specifica convenzione tra chi recita e chi assiste, in una consapevole condivisione di spazio e di tempo, e che tutto il teatro è narrazione.
Più volte Ortoleva, conoscitore ed estimatore di Marco Baliani, ha affermato “D’altronde cos’è il teatro se non narrazione?!”. Nella sua idea di regia la chiave di realizzazione di uno spettacolo può passare dagli input più diversi, omologhi e/o antitetici, i rigorosamente scientifici adesi a quelli kitsch o bizzarri. In Saul non si mette freni nel proiettare lunghe scene del film peplum del 1960 David e Golia. Per I rifiuti, la città e la morte concepisce una colonna sonora spudoratamente composta da canzonette di Patty Pravo, Berté e Gianna Nannini a commentare la complessità del contesto strutturato che è andato a costruire. Qui Ortoleva si permette perfino di smentire le dichiarazioni di Fassbinder che non vedeva parentele tra il proprio teatro e la lezione brechtiana e nei risultati dell’impostazione straniata imposta agli attori rivela quanto l’autore bavarese sia in realtà se non figlio quanto meno nipote teatrale in linea diretta del drammaturgo di Augusta. In modo particolare risulta evidente nella recitazione con cui porta Edoardo Sorgente a passare da un personaggio all’altro grazie a cambiamenti minimali di estensione e toni vocali, di gesti lievissimi della maschera, del movimento delle dita, uno nessuno e centomila grazie a un solo alzarsi del sopracciglio. Del resto tra il regista Ortoleva e l’interprete Sorgente il sodalizio risale ai tempi dell’apprendimento artistico alla Scuola Paolo Grassi e i loro nomi si trovano accoppiati in molti spettacoli (fin dal primo monologo di Ortoleva Oh! Little Man!), e in Lancillotto e Ginevra hanno vinto forse la sfida più complessa e ardua. Basti dire che insieme son riusciti a dare un senso espressivo anche agli scricchiolii delle scarpe di vernice. Ora che appaiono di nuovo insieme anche sulla locandina del prossimo La dodicesima notte (o quello che volete) del LAC di Lugano, ci si attende una nuova grande prova recitativa. Di certo sarà interessante vedere come affronteranno il passaggio dalle pagine e dai concetti dell’amore cortese alla verità e alle varietà umane espresse da Shakespeare.
Se ieri Ortoleva affermava “Quello che proponiamo è un lavoro radicale sulla parola e sull’amore. L’amore cortese sta alla base della creazione dell’idea dell’amore occidentale. E la storia di Lancillotto e Ginevra è l’esempio più lampante di questo tipo di amore per noi occidentali”, oggi anticipa che “proseguo con Shakespeare un viaggio nell’amore romantico attraversando i testi che l’hanno creato, problematizzato e distrutto. In anticipo di tre anni su Don Chisciotte, Shakespeare raccontò al pubblico del suo tempo cosa accade quando le invenzioni della letteratura trionfano sul mondo che ci circonda e la fantasia si trasforma in ossessione, violenza, pazzia; un viaggio dentro quel patologico distacco dalla realtà che ritroviamo in forma pandemica nell’epoca che viviamo”.
Non si tratta di sfide tra le più semplici, e non è un caso se What You Will (La dodicesima notte) è tra le commedie shakespeariane la meno rappresentata. Molto meno del Dream o di Much Ado. Del Sogno di una notte di mezza estate o di Molto rumore per nulla. Infiniti i temi e le relazioni da gestire e da tener presenti. La castità di Olivia che si nega alla vista e all’amore di Orsino, il travestimento in abiti maschili di Viola che come donna si innamora di Orsino e come uomo fa innamorare di sé Olivia in un triangolo equilatero del tutto irregolare, le sottotrame e i fraintendimenti per amori corrisposti e respinti tra ancelle e cortigiani, gli equivoci per il doppio dei gemelli di sesso diverso separati e ignari autonomi l’uno dall’altro… Tempo, sei tu che devi sciogliere questo groviglio, recita una delle battute fondamentali del testo. Giovanni, sei tu che devi spiegarci teatralmente gli infiniti perché che sottendono a questo groviglio… Di certo troveremo assonanze con le soluzioni che hai trovato per il ginepraio di Fassbinder.
(Nella foto di Donato Aquaro una scena di I rifiuti, la città e la morte di Rainer Werner Fassbinder con la regia di Giovanni Ortoleva. Ora il regista fiorentino è atteso al LAC di Lugano dal 28 febbraio al 1° marzo 2023 con La dodicesima notte di Shakespeare)